Ma quanto è bella la Siccità di Virzì? Il regista “anticipa” il fenomeno di questi mesi e presenta una Roma inquietante

A Roma non piove da tre anni, il Tevere è prosciugato, il razionamento dell’acqua ha cambiato volto alla città; in questo contesto si muovono le storie di alcuni strani figuri, protagonisti di questo film corale, le cui vite si intrecciano tra casualità e destino.
Presentato fuori concorso alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia e uscito in sala il 29 settembre, con Siccità il regista livornese Paolo Virzì torna a osservare e raccontare l’Italia nella sua viva e umana contemporaneità attraverso una storia post-apocalittica, quasi distopica, eppure capace di
mescolare al paradosso una buona e inquietante dose di verisimiglianza.
In una Roma devastata da una siccità triennale e da uno strano e fatale morbo del sonno, l’aria che si respira è putrefatta, rancida di sporcizia e calore, così come sfilacciati e malati sono i rapporti tra
gli esseri umani che percorrono le strade della città: Antonio (Silvio Orlando), in prigione per un
terribile errore del passato, sogna di non uscire più. Loris (Mastrandrea), ex autista di auto blu e ora
fallito taxista, intrattiene conversazioni con personaggi del suo passato e finisce per ammalarsi.
Sara (Claudia Pandolfi), medico in prima linea, scopre una nuova epidemia e cerca di diffondere la voce, mentre suo marito Luca (Vinicio Marchioni), avvocato, si dedica al sex texting con l’amante.
Alfredo (Tommaso Ragno), attore in crisi, punta tutto sui social media e fallisce miseramente, mentre Mila, sua moglie (Elena Lietti), lavora in un supermercato per mantenere la famiglia.
Questa misera, grande umanità si muove per Roma come un branco di spettri, desideroso tanto di speranza e riscatto quanto abbandonato a sé stesso e alla propria bruta necessità di sopravvivenza; se in tal senso immediato è il riferimento alla pandemia, al suo cupo sviluppo e agli ancor più cupi e catastrofici effetti, il film di Virzì riesce a limitare il didascalismo, preferendo approfondire la riflessione su un mondo e su una natura violentati e calpestati proprio da coloro che poi, necessariamente, raccoglieranno le conseguenze delle loro azioni.
L’ironia è amarissima e di essa si nutrono i dialoghi del film: sinceramente divertenti, brillanti e allo stesso tempo drammatici, sul loro ritmo infallibile si costruisce l’intera operazione filmica, incasellabile senza dubbio nel genere della commedia nera e capace, in più di un’occasione, di andare al di là della contingenza narrativa per proporre verità rivelatrici e modelli in cui persino il singolo spettatore potrà riconoscersi.
Il lavoro di scrittura a otto mani portato avanti, oltre che dal regista, anche da Francesca Archibugi, Paolo Giordano e Francesco Piccolo è di grande livello, e se di tanto in tanto gli si potrebbe forse rimproverare di aver messo troppa carne al fuoco, innegabile è la qualità della caratterizzazione dei protagonisti, talvolta volontariamente solo abbozzati e tutti egregiamente interpretati da uno dei migliori cast visti negli ultimi anni.

VOTO 8

Maria Letizia Cilea