Bossi e “quel mafioso di Arcore” In questi giorni si ricorda la fondazione del movimento che portò in primo piano la questione del Nord. In Piazza Bra attaccava Silvio Berlusconi. Dai comizi infuocati contro i “Vescovoni” alle camicie verdi e il patto di Cisano per Tosi sindaco

di Maurizio Battista
La Lega nord compie 40 anni. Ma la Lega di Bossi, però, non quella di Salvini. Il Carroccio nacque prima come Lega Lombarda così come la Liga veneta che risale al 1979 quando venne fondata da Franco Rocchetta e nel 1983 riesce a far eleggere Achille Tramarin e Graziano Girardi.
Un movimento politico fortemente territoriale, difensore del Nord che per primo mise sul tavolo dei temi nazionali la questione settentrionale.
Eravamo a metà degli anni Ottanta, il movimento venne preso più come un fenomeno folkloristico che come una vera novità politica. Un errore.
Perché quando iniziò la fase calante della Democrazia cristiana e comunque dei vecchi partiti tradizionali poi travolti da Tangentopoli, la Lega nord diventò la grande calamita dei voti del popolo del Nord rimasto orfano della balena bianca e in parte anche del vecchio pci. La Lega veniva votata nelle parrocchie come nelle fabbriche.
Questa era la sua forza che la impose al centro dell’attenzione politica: un movimento chiaramente populista, fortemente identitario, ma non per questo schierabile a destra, perché il suo obiettivo era liberare il nord dlala schiavitù ri Roma ladrona. Voleva dire liberare le piccole e medie imprese dalla burocrazia e quindi dal potere della capitale, da qui la proposta di una ricetta federalista, dell’autonomia, che poi diventò secessione per ritornare a un federalismo nell’alveo costituzionale.
Bossi, eletto Senatur nel 1987, con la Lega nord riuscì, come ricostruisce Ernesto Laclau nel suo libro “La ragione populista” quasi tutti i movimenti autonomisti del Nord Italia con l’egemonia però della Lega lombarda, sempre vissuta male dai veneti.
Una premessa doverosa, in stile Bignami, per far capire anche alle giovani generazioni perché oggi si parla della Lega e quale differenza enorme ci sia con la Lega di Salvini di oggi, nata dalla ceneri della Lega nord di Bossi che è diventata una bad company travolta da scandali e debiti milionari (i famosi 49 milioni da restituire per lo scandalo dei diamanti che travolse il Carroccio e la famiglia Bossi oltre all’autista Belsito).
Una Lega nazionale quella di Salvini, che non ha problemi a lasciare il Nord per il Ponte sullo Stretto tra Calabria e Sicilia, una vera bestemmia per i leghisti antichi delle vallate veronesi, vicentine, bergamasche bresciane, che ricordano lo slogan del Leon che magna el teròn, volevano che la Padania diventasse una nazione, e avevano nel mirino “Roma ladrona, la Lega non perdona”…

Il boom: 80 parlamentari e la voglia di secessione

A fine anni Ottanta la Lega si mette in luce e muove i primi passi: Bossi entra in Parlamento e convoca il primo raduno sul “prato sacro” di Pontida da dove lancia i suoi anatemi: qui si terrà poi la Festa dei popoli e prenderà il via il rito dell’ampolla con l’acqua del Po che dalle sorgenti del Monviso viene portata nella laguna di Venezia.
Ma gli anni ruggenti arrivano dopo, quando il sistema politico italiano si frantuma sotto i colpi delle cannonate di Tangentopoli. Bossi capisce che la Lega da sola rischia di essere stritolata da Forza Italia e Alleanza nazionale che si rivolgono agli elettori del Nord entrando in competizione sullo stesso terreno, scrive Laclau.
Alla Lega del resto avevano guardato in molti sperando che fosse una risposta concreta alla necessità di veder riconosciuto il ruolo di locomotiva d’Italia. In particolare il Nordest vorrebbe puntare sul federalismo per avere più autonomia e guarda con interesse alle spinte autonomiste di Bossi, salvo poi capire che è un bluff e così Giorgio Lago, grande direttore del Gazzettino tra gli anni Novanta e primi Duemila afferma che la Lega Nord è “senza progetto” e si perde in un “inutile dibattito su dove sia la capitale”, mentre il Nord vuole riforme vere.
Lago scrive nel settembre 2003: “Non esisteva la secessione possibile; non esiste a Milano una seconda Roma nel nome di una presunta Padania. Non esiste niente di tutta questa faccenda inventata a tavolino” (“L’inguaribile riformista, Giorgio Lago e la parabola del Nordest Grandi pagine di giornalismo dal 1996 al 2005”, imperdibile raccolta di editoriali curata da Paolo Possamai con introduzione di Ilvo Diamanti, Marsilio editore).
E’ la delusione maturata dopo le prime esperienze di Bossi al Governo con Berlusconi e Fini.
Quello di Berlusconi, come scrive Piero Ignazi nel saggio su “I partiti politici in Italia” per il Mulino è “un abbraccio soffocante” per Bossi che si ritrova “imbrigliato in un’alleanza che rischia di vampirizzarlo”. Anche perché nel 1994 i risultati elettorali dicono che nelle città del Nord il primo partito è Forza Italia e non più la Lega.
Lega che aveva trionfato due anni prima, alle elezioni del 1992 spazzando via tutti i vecchi partiti della Prima Repubblica ed eleggendo ben 80 parlamentari.
Ma quando appunto Berlusconi entra in campo e ruba voti alla Lega la prima esperienza di Governo, il primo della coalizione di centrodestra, dura pochi mesi e Bossi apre anni di scontri durissimi con Silvio.

Il parlamento del Nord a Bagnolo

Bossi scalcia, ha capito il pericolo, ha fiutato la trappola, vuole spazio e identità precise, non annessioni. Sono epici i suoi comizi in questi anni di scontro con Berlusconi negli anni Novanta quando in piazza Bra, sotto l’Arena, attacca frontalmente tutti, ma in particolare Forza Italia e la Chiesa.
Silvio diventa “il mafioso di Arcore”, e poi “Berluskaiser” e “Berluskaz”, Bossi si chiede da dove vengano i soldi di Berlusconi, fa riferimenti allo “stalliere di Arcore” (Vittorio Mangano), evoca dietrologie e complotti ai quali la Lega si vuole sottrarre, assicura “Mai più con lui” e che “senza la Lega non si va da nessuna parte”. Nel mirino dei comizi del Senatur finiscono anche “i Vescovoni” che secondo lui vogliono soffocare il Carroccio: la Chiesa ha sempre fatto fatica a digerire la Lega.
Anche perché alzando i toni il Senatur chiede la secessione al punto da creare il Parlamento del Nord che si riunisce nel giugno 1995 a Villa Riva Berni di Bagnolo San Vito nel mantovano con le camicie verdi a fare servizio d’ordine, iniziativa che costerà un’inchiesta per eversione. Tanto che nel 1997, al congresso del partito, Bossi proprio per “cementare un’opposizione di massa al governo centrale”, come scrive ancora Ignazi, cambia nome al partito che da Lega Nord diventa Lega Nord per l’indipendenza della Padania.
Una ipotesi, quella secessionista, che fallisce presto, la Lega viene isolata, Bossi cerca di rilanciare con la “devolution” presa in prestito dalla Gran Bretagna, da Pontida rilancia l’assemblea costituente, il partito è diviso tra l’anima moderata alla Maroni e l’ala radicale soprattutto veneta dei Serenissimi, le spinte xenofobe contro gli immigrati (il sindaco di Treviso Gentilini diventa tristemente famoso per i suoi slogan da cacciatore….), stranieri che invece alle imprese e all’agricoltura del Nordest servirebbero come manodopera.
Si aprono crepe tra il territorio e il Carroccio perché le risposte tanto attese non arrivano.
Scrive ancora Giorgio Lago nel novembre 2002, facendo trasparire tutto il suo (e del Nordest imprenditoriale) scetticismo: “Chi considera la devolution la fine dello Stato fa avanspettacolo istituzionale. Ma chi come Bossi, l’altro ieri a Pavia, invoca la devolution per porre fine alla schiavitù della Padania, dimostra di aver perduto nel 2002 anche il senso del ridicolo”.
E si rivolgeva a quell’Umberto Bossi che all’epoca era ministro per le Riforme. “L’unico pericolo che corre l’Italia è sempre lo stesso -concludeva Lago-. Il riformismo alla Vanna Marchi”. Dopo 22 anni è cambiato qualcosa?

La crisi, le vallate e il patto di Cisano

La Lega di Bossi cala nei consensi, perde le città importanti, Bossi nel marzo del 2004 viene colpito da ictus e la sua limitata attività politica non fa bene alla Lega. Ma il ruolo della Lega nella Casa delle libertà è ancora forte, alle elezioni del 2006 il Carroccio conferma la propria forza nelle vallate lombarde e venete, e nel 2007 con il patto di Cisano, Bossi dà il via libera alla candidatura di Flavio Tosi a sindaco di Verona: a casa del parlamentare di Forza Italia Aldo Brancher, uomo di collegamento tra Berlusconi e il Senatur, Alfredo Meocci che era il candidato sindaco in pectore rinunciò alla sua candidatura in favore di Flavio Tosi, leghista, che diventerà il candidato unitario del centrodestra. Con tanto di comizi in piazza dei Signori con Bossi, Salvini e Tosi sul palco. Una spinta, quella veneta, che ritroviamo poi, uscito Bossi di scena, nelle richieste del Veneto con il referendum per l’autonomia, e nel lavoro del ministro Calderoli per trasformarla in legge sempre restando nell’ambito della Costituzione. Per il resto, dall’espulsione di Tosi dalla Lega ad opera di Salvini, alle battaglie per il terzo mandato di Zaia in Regione e le ipotesi sul futuro di Salvini, la battaglia per la Regione con Tosi in prima linea, la Lega ci darà ancora molto da scrivere. Questi sono solo i primi quarant’anni…