Brecht e la cecità degli ecclesiastici Il drammaturgo terminò la “Vita di Galileo’’ nel 1938 dopo una lunga gestazione

Nel 1938, Bertolt Brecht ultimò una delle sue opere più famose, e uno dei drammi teatrali più noti del Novecento. Leben des Galilei narra episodi scelti della lunga vita dello scienziato pisano, coprendo un ampio spazio di tempo; tuttavia, l’aspetto storico è solo uno di quelli che convergono a conferire profondità e importanza a quest’opera.
Se sulla durata della gestazione del testo non c’è pieno accordo, è comunque possibile affermare che l’opera patisce le circostanze della prima metà del secolo scorso. Il suo intento ultimo è fortemente critico nei confronti dell’autorità in ogni sua forma, e il suo progetto rientra in un più ampio intento di costruzione di drammi a sfondo storico, che mettessero in scena i più importanti processi della storia, tentato da diversi scrittori di ispirazione socialista – Brecht, certamente, ma anche Thomas Mann.
Il Galileo tratteggiato da Brecht è un Galileo schivo, che tenta di evitare l’aperto conflitto con l’istituzione ecclesiastica e, naturalmente, con il suo braccio armato, l’Inquisizione. Galileo si costruisce possibili scenari in cui il proprio sostegno alla tesi copernicana possa fare breccia nelle menti degli ecclesiastici, eventualità che raramente si realizza, salvo che in un caso, peraltro storicamente notevole.
Quando Galileo viene invitato al Collegio Romano a riferire e spiegare le proprie scoperte, Brecht fa entrare in scena un personaggio di grande rilevanza storica, uno dei massimi matematici dell’epoca, il gesuita Cristoforo Clavio. Clavio accetta le spiegazioni di Galileo, le ritiene fondate, ma ugualmente i convenuti ecclesiastici si rifiutano di dare valore a quanto Galileo ha mostrato. Il fondamento della critica è chiaro: Brecht oppone all’autorità la ragione (Vernunft), termine che ricorre molte volte nell’opera, soprattutto in uno scambio notevolissimo tra Galileo e Bellarmino, che ha al centro un tema dibattuto lungamente in età moderna, ossia la debolezza della ragione e, conseguentemente, il grado di affidabilità da riconoscerle. Brecht, per bocca di Galileo, non intende sostenere l’infallibilità della ragione. Al cardinale che oppone allo scienziato le storture della ragione, gli errori in cui essa incorre, Galileo risponde che, se Dio avesse voluto che l’uomo comprendesse l’interno universo, gli avrebbe fornito un cervello adatto. Così non è, e la conclusione è che la ragione deve procedere per tentativi, in modo claudicante, ma libero.
«Ich glaube an die Vernunft», ripete due volte Galileo: «Io credo nella ragione», e nella sua libertà da condizionamenti. Galileo, come è noto, diverrà cieco in tarda età, anche, probabilmente, a causa delle sue osservazioni al cannocchiale, tramite il quale le macchie solari, non opportunamente offuscate, compromisero la vista dello scienziato.
Ma dal testo di Brecht traspare, per converso, la cecità non fisica, ma intellettuale degli inquisitori e degli ecclesiastici, che si rifiutano di osservare attraverso il cannocchiale – cosa che solo Clavio fece. È contro questa cecità e contro il vincolo che essa impone che Brecht si esprime, tramite la professione di fede razionalista fatta pronunciare a Galileo.

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