Così il 1960 diventò “Anno dell’Africa’’ In quei dodici mesi diciassette colonie del continente divennero indipendenti

Soltanto nel quinquennio 1958-62 venticinque stati si affrancarono dalla dominazione coloniale e il culmine dei processi di decolonizzazione fu raggiunto nel corso del 1960, quando 17 stati dell’Africa nera raggiunsero l’indipendenza. Di quest’ultimi quattordici appartenevano all’impero coloniale francese africano: Camerun, Madagascar, Senegal, Costa d’Avorio, Gabon, Congo francese, Ciad, Repubblica Centrafricana, Togo, Alta Volta (dal 1984 Burkina Faso), Benin, Niger, Mali e Mauritania. Gli altri tre stati che diventarono indipendenti furono la Nigeria, ex colonia britannica, il Congo belga e la Somalia, già colonia italiana (dal 1947 posta sotto l’amministrazione fiduciaria della stessa Italia) e inglese. Le tre colonie africane del Portogallo – Angola, Guinea Bissau e Mozambico – conseguirono l’indipendenza solo alla metà degli anni Settanta, quando a Lisbona vinse la democrazia.
Il 1960, “anno dell’Africa”, mutò completamente la geopolitica del continente al suo interno e nei rapporti con gli altri stati del mondo, contribuì de facto a rafforzare il bipolarismo degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica e la Francia perse il residuo spazio di autonomia politica sul piano internazionale, dovendo riconoscere nel 1962 l’indipendenza all’Algeria, che aveva sempre considerato “parte integrante dello stato francese”. La fase preparatoria per emanciparsi dal colonialismo durò in molti casi solo qualche anno e avvenne spesso in modo incruento. Le cause principali di un tale evento epocale, oltre alle specifiche ragioni storico-locali legate alle singole colonie, vanno rintracciate in alcuni fatti accaduti nei precedenti anni cinquanta.
Quegli avvenimenti si combinarono e interagirono con le istanze dei movimenti indipendentisti, molti dei quali sorti tra le due guerre, e resero inevitabile la fine del colonialismo europeo in Africa. Il primo fatto di fondamentale rilevanza fu l’influenza esercitata sull’Africa dal decennio dell’imponente decolonizzazione dell’Asia. Il secondo avvenimento fu la conferenza di Bandung (1955), in cui si condannò senza riserve ogni forma di colonialismo e qualsiasi interferenza nella politica di altri paesi. Nel Manifesto si dichiarò di appoggiare la “causa della libertà e dell’indipendenza di tutti i popoli dipendenti” e ci si appellò “alle potenze affinché concedano libertà e indipendenza a questi popoli”.
L’intervento di USA e URSS nella guerra del Sinai, imponendo a Francia e Gran Bretagna la fine del conflitto, pose irrimediabilmente termine a qualsiasi loro ambizione di perseguire una politica estera di potenza sganciata dal bipolarismo. La guerra di Algeria, inoltre, aveva provocato la caduta della Quarta Repubblica e il tentativo di De Gaulle di costruire con le colonie la Comunità francese, ispirandosi al Commonwealth, fallì subito. Gli alti costi di gestione dei domini coloniali stavano convincendo i governi europei a garantirsi la conservazione dei vantaggi di natura economica e di rinunciare, almeno formalmente, al dominio politico, avvalendosi anche della collaborazione di un personale amministrativo compiacente se non collaborativo. Perdurava il sospetto, osserva Westad, “in alcuni casi piuttosto fondato, che la burocrazia coloniale servisse ancora due padroni: i funzionari nominati dal vecchio regime erano agenti al soldo degli interessi politico-economici della vecchia madrepatria.”

*Romeo Ferrari, docente di storia e filosofia