“In un mondo di luci, sentirsi nessuno” Un verso di Luigi Tenco, che al Festival di Sanremo decide, quella sera, di farla finita...

Ammettiamo pure che “Io tu e le rose” non sia un pezzo memorabile e che vedendo una giovane Orietta Berti incedere con la sua prepotente cotonatura, sul palco di Sanremo ’67, sia lecito pensare che certe cose, comprese le canzoni, sembrano nascere già vecchie. Ma di qui ad accettare che qualcuno possa essersi indignato a tal punto da farne la ragione di una scelta estrema e scriverne addirittura nel proprio biglietto di addio, il passo è tutt’altro che breve.
Eppure così dichiara Luigi Tenco prima di suicidarsi, con un colpo alla testa, in una stanza d’hotel: «Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io tu e le rose” in finale e ad una commissione che seleziona “La rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi.»
Senza mezze misure. Chiaro, diretto. Senza mezze misure. Il punto però è un altro. Interessa a qualcuno come è morto Luigi Tenco? La risposta è che no, non dovrebbe interessare a nessuno. Non dovremmo soffermarci a cercare spiegazioni, complotti e dettagli su un fatto irreversibile e tragico come una morte. Non dovremmo cercare la celebrazione della vita di qualcuno, andando a pescare nel come della sua dipartita.
Eppure basta dire Tenco e in automatico si associano alcune parole. Suicidio, Sanremo, Dalida. Come fosse fisiologico farlo, come non si potesse pensare alle sue canzoni senza citarne la fine. Il vero peccato è perdersi in queste chiacchiere da riunione di quartiere anziché ricordare la rivoluzione di cui Tenco si è reso protagonista, la spaccatura profonda che la sua produzione artistica ha portato sulla scena musicale, culturale e sociale dell’epoca, anticipando per certi versi i temi fondanti del sessantotto.
Le su canzoni. Spaziando da Pasolini all’esistenzialismo di Sartre, passando per Derrida, le canzoni di Tenco parlavano di politica, di guerra, di emarginazione e di diritti delle donne a modo suo, senza quasi fartelo capire che di quello stava parlando, che quello stavi canticchiando. Pensi a “Cara Maestra”, a “Una brava ragazza” e ti vien da chiederti dove ci siamo perduti, dove, da allora. Cosa è andato storto? Perché erano e – purtroppo suonano tutt’ora – come uno schiaffo al pensiero medio. Perché combinavano l’orrore per l’ingiustizia, sociale soprattutto, con la volontà di cambiare le cose. Ed era questa spinta che lo muoveva, come un vento che rovina, che spariglia le carte e che gli faceva dire che avrebbe scritto canzoni fino a che avrebbe avuto cose da dire. E a chi gli chiedeva perché scrivesse solo cose tristi lui rispondeva, serafico “Perché quando sono felice esco”.
Ascolti Mi sono innamorato di te, Lontano Lontano, Ciao Amore Ciao, e ti pare verosimile per Tenco, ma mica solo per lui, “in un mondo di luci sentirsi nessuno”. Ascolti “Ognuno è libero” e ti pare proprio vero che certe persone, certe cose, comprese le canzoni, alle volte sembrano venire dirette dal futuro.

Giulia Tomelleri