Kobe Bryant, la fine di una leggenda Due anni fa la scomparsa del fuoriclasse (e della figlia) che sconvogono il mondo dello sport

Sono le 11.30 passate del 26 gennaio 2020. Il telefono di Kobe Bryant, uno dei cestisti più famosi del pianeta, continua a squillare a vuoto. A tentare di contattarlo è la moglie Vanessa, in preda all’angoscia, assieme ai due figli più piccoli Bianka e Capri. Poco prima, in una zona a nord di Los Angeles, un aereo si era schiantato sulle colline sopra Calabasas.
L’INCIDENTE. All’incirca alle nove di quella mattina, Bryant, sua figlia di tredici anni Gianna e altre sette persone decollarono dall’aeroporto della Contea di Orange-John Wayne, in California, a bordo dell’elicottero privato di proprietà del giocatore. Al pilota, Ara Zobayan, era stato chiesto di portarli alla partita di basket della ragazzina. Il velivolo, però, non arrivò mai a destinazione e prese fuoco dopo essere precipitato. I vigili del fuoco della Contea spensero l’incendio alle 10.30, confermando la morte di tutti i passeggeri. Secondo i rapporti, a causare lo schianto fu la scarsa visibilità data da una fitta nebbia.
PRIME (FALSE) SPERANZE. Vanessa Bryant venne a sapere dell’incidente da un assistente di famiglia, che le riferì erroneamente della presenza di cinque superstiti. La donna cercò così di convincersi che Kobe e la figlia fossero ancora vivi, e così provò più volte a chiamare il marito. Prima ancora che la notizia fosse ufficiale, tuttavia, sui social giravano già messaggi di cordoglio. Incredula, tentò di salire su un elicottero che la trasportasse sul luogo, ma le avverse condizioni meteo non garantivano un volo in sicurezza.
LA STRAZIANTE SCOPERTA. Passarono ore prima che Vanessa venisse a conoscenza della verità. Dall’ufficio dello sceriffo Alex Villanueva, nessuno le dava risposte alle sue domande. L’unico che provò a darle una mano fu Rob Pelinka, general manager dei Lakers e storico ex agente di Kobe, che la accompagnò in auto sul posto. Dopo una lunga attesa, all’arrivo di un prete, dello sceriffo stesso e di un suo addetto stampa, le venne comunicato che non c’erano sopravvissuti.
L’ACCUSA. La signora Bryant prelevò dall’area gli abiti di Kobe e Gianna e, come unica richiesta, si rivolse allo sceriffo per assicurarsi che nessuno scattasse foto ai corpi dei suoi cari. Una promessa non mantenuta: nonostante la parola data, qualcuno lo fece comunque, e ora la vedova chiede giustizia. Il dito puntato è verso quattro poliziotti, che avrebbero dovuto garantire la privacy e invece hanno scattato per primi numerose fotografie, facendole circolare nelle successive ore. La denuncia da parte della donna è puntualmente arrivata, così come la condivisione pubblica di documenti e nomi degli agenti coinvolti. La Contea di Los Angeles, d’altra parte, ha risposto alle pesanti parole chiedendo valutazioni mediche e psichiatriche su Vanessa e tutti gli altri che hanno fatto causa per possibile stress emotivo. Il giudice John F. Walter, di recente, ha respinto la richiesta delle autorità di archiviare le indagini. La battaglia legale rimane tuttora aperta.

Francesco Cazzola