La tolleranza, una virtù sempre positiva? E’ una pratica esclusiva che sancisce un distacco ed è il contrario dell’accoglienza

La tolleranza viene spesso intesa come una virtù positiva, un tratto caratteristico che caratterizza chi riesce a sopportare eventi, condizioni o persone spiacevoli, operando, quindi, uno sforzo emotivo.
Il termine tolleranza, di origine latina e di connotazione primariamente cristiana, indica precisamente una disposizione di faticosa sopportazione. Ma la tolleranza implica anche un atteggiamento di apertura o di comprensione dell’altro? In altri termini: la tolleranza può essere definita effettivamente un atteggiamento positivo? In un mondo che valorizza un’etica dello sforzo, che considera – ancora, cristianamente – il dolore e la sofferenza come valori che qualificano un individuo, la tolleranza non può che essere considerata anch’essa un valore. D’altra parte, l’elevazione alla sofferenza al rango di valore non serve ad altro che a giustificare lo stato presente di disuguaglianza.
Tuttavia, vale la pena interrogarsi su questo, anche da un punto di vista storico. Nella prima età moderna, a partire dal XVI secolo, la tolleranza entra nel dibattito culturale come oggetto di rivendicazione. L’oggetto del contendere è, in prima istanza, la teorizzazione di una forma di tolleranza piuttosto specifica, che controbilanci le persecuzioni perpetrate dalle autorità civili e religiose contro i dissidenti rispetto alla confessione religiosa dominante: così avviene, principalmente, nel caso degli eretici protestanti e nel caso degli ebrei, individuati entrambi come componenti destabilizzanti della società. Il bisogno di tolleranza diviene una necessità eminentemente pratica: la persecuzione è di natura pratica, fisica, violenta. È chiaro, quindi, che la tolleranza si esercita nei confronti di un nemico, di qualcuno che si vede come diverso e che non si vuole o non si riesce a ricomprendere all’interno del proprio orizzonte culturale o di pensiero.
La pratica della tolleranza è una pratica esclusiva, che sancisce un distacco e che costituisce il contrario dell’accoglienza. Non solo, la tolleranza è una pratica gerarchica: colui che tollera si pone, esplicitamente o implicitamente, su un livello superiore rispetto al tollerato, al quale concede – ben diverso dal riconoscere – il diritto all’esistenza.
La tolleranza, quindi, non integra, ma divide, e colui che la mette in pratica rivendica per sé il diritto di deliberare sulle sorti dell’altro. Sotto le spoglie della perpetuazione dell’ordine civile, sociale e religioso, la tolleranza si pone come un’arma che può essere adoperata e ritirata, potenzialmente, a piacimento.

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