Ruffalo si ritrova in “cattive acque” Un’americanissima storia di inchiesta civile. Ma c’è qualcuno che la fa sempre franca

Cattive Acque (Amazon Prime Video – 2019)

Nel 1998 Rob Billot è neosocio di un rinomato studio legale di Cincinnati. Mentre il suo studio prende i contatti con l’industria chimica DuPont quale potenziale futuro cliente, un allevatore di Parkesbourg bussa alla sua porta chiedendogli supporto legale: più della metà delle sue mucche sono morte nel giro di pochi anni, uccise da qualcosa che la vicina discarica della DuPont ha sversato nell’acqua del posto. Starà a Rob scoprire la verità e decidere da che parte far pendere la sua bilancia morale… Parte direttamente da Mark Ruffalo l’iniziativa di questo Cattive Acque, americanissima storia di inchiesta civile nota alle cronache grazie all’articolo The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmare (New York Times, 2016) e trasposta sullo schermo dal sapiente lavoro del regista Todd Haynes. Militante ambientalista tra i più attivi di Hollywood, l’attore ha coinvolto alcuni tra i migliori professionisti del settore, dagli sceneggiatori Tom McCarthy e Josh Singer (Oscar per Il caso Spotlight) al geniale direttore della fotografia Ed Lachman già assoldato per Erin Brockovich. Come per il film di Soderbergh di cattive acque infatti si parla, solo che qui ci troviamo tra i ranghi dell’avvocatura americana e in compagnia dei dirigenti di potenti industrie chimiche. Le due istituzioni vivono della spavalderia di chi riesce sempre a spuntarla, finché un anonimo allevatore del West Virginia non arriva a disturbare la loro omertosa quiete. Il film ha una messa in scena rigorosa che sceglie di esporre i fatti, puri e semplici, prima di ogni cosa: qualcosa di velenoso infesta le acque di un torrente a Parkesbourg, un uomo vede morire il suo bestiame e non se ne dà ragione. Niente retorica del buono contro il cattivo dunque, nel racconto di questa tragedia si sceglie un’adesione completa al dramma visceralmente umano di questi americani, lavoratori che vivono dei frutti di un terreno sottratto alle loro stesse mani in nome di un amore per il profitto malcelato dietro la retorica della buona industria americana: «chemichal not for chemichal’s sake, but for people’s sake», ma con una piccola omissione sul prezzo di questo presunto benessere, costruito per dei consumatori condannati a morte senza saperlo. La sapienza di Lachman e la trasparenza della regia di Haynes fanno qui uno sforzo di grande precisione nel mostrare i punti più insondabili della storia ancor prima che il mistero sia rivelato; piccole spie, che diventano significative man mano che lo sguardo del protagonista si immerge più a fondo in quelle cattive acque che con la loro virulenza invadono anche la sua mente, fino a diventare vera ossessione. «I’m still here» disse Billot nel 2015, a diciassette anni dall’inizio dell’inchiesta; continuano a ripeterlo ancora oggi le centinaia di migliaia di persone avvelenate dalla DuPont in attesa di giustizia. «Siamo ancora qui», bistrattati e aggirati, a sopportare i soprusi del potere e a smascherare gli inganni delle istituzioni, sempre fedeli a un’altra umanità, fiduciosi nella sua vittoria. Maria Letizia Cilea