Salviamo le librerie! Il sindaco di Cerea toglierà le imposte comunali a chi ne aprirà una. A Verona, invece, quelle storiche continuano a chiudere

Com’è possibile che a Cerea, cittadina di 17 mila abitanti nel ricco e civile Nordest, da più di dieci anni non vi sia nemmeno una libreria? C’è la biblioteca comunale, che è frequentata da studenti e amanti della lettura, ma finisce tutto qui. Che futuro può avere una comunità senza librerie? È abbandonata all’ignoranza dei social network, strumenti formidabili ma allo stesso tempo imperitura fucina di castronerie e inutili vanità. Ecco che l’iniziativa del sindaco di Cerea di azzerare le imposte comunali a chi deciderà di aprire una libreria in loco è da accogliere come un segnale di speranza. Può essere un inizio. In un anno, in Italia, hanno chiuso 2.300 librerie, moltissime a conduzione familiare.

È la strage della cultura. Pensiamoci: in questa repubblica alla deriva quante altre cittadine sono nella stessa condizione di Cerea? Moltissime, immaginiamo. «Abbiamo voluto dare un messaggio chiaro e concreto» ha detto il primo cittadino, Marco Franzoni. L’iniziativa, non poteva essere altrimenti, è stata accolta con soddisfazione dal presidente dell’As­sociazione Librai Italiani, Paolo Ambrosini, il quale però ha anche sottolineato che la “legge sul libro” per promuovere la lettura giace in Senato da quasi un anno. Insomma: siamo alle solite.

E NEL CAPOLUOGO?
A Verona ci sono le librerie delle grandi catene, Feltrinelli e Mondadori su tutte. Lì si trova un po’ di tutto, sono fornitissime. E però che fine hanno fatto i librai di professione? C’erano tanti posti romantici che profumavano di buono, di storia, di passione. L’ultima vittima illustre, lo scorso autunno, è stata la libreria “Ghelfi e Barbato”, che appena aperta, nel 1927, si chiamava “Grosso”. Quel cartello affisso negli ultimi giorni, “Svendita totale per chiusura”, è stato un pugno nello stomaco per tanti veronesi. La chiusura è stata dettata sì dal calo nazionale delle vendite, a dir poco allarmante, ma anche dalla concorrenza agguerrita (eppur legittima) dei colossi, quasi impossibile da sostenere se le librerie indipendenti non ricevono aiuti e incentivi sufficiente dalle istituzioni. “Ghelfi e Barbato”, peraltro, nel 2012 aveva già dovuto abbandonare il negozio di via Mazzini (dove oggi c’è “Goldenpoint”, che vende mutande e reggiseni di ottima fattura) per trasferirsi in piazzetta Scala. Ma di saracinesche abbassate, se allarghiamo lo sguardo, ce ne sono state molte altre. In via Roma c’era la gloriosa libreria Catullo di Marisa Benini per tutti i veronesi, “la Marisona”. C’era “Rinascita”, con la sua insegna rossa oltre il vecchio portone in ferro battuto, era uno dei fiori all’occhiello di Corso Portoni Borsari. In via Carducci c’era la libreria “Grosso”. Nella galleria di via Cappello c’era la “Combo­niana”. Alle arche scaligere il vecchio “ambientalista” Giorgio Bertani aveva un altro piccolo gioiello. L’elenco è lungo. Poco alla volta stanno sparendo pezzi della nostra storia. Forse, a Verona ma non solo, si potrebbe provare a prendere a modello l’iniziativa di Cerea. Almeno sarebbe un tentativo.

Edoardo Russo