Quando la Palestina venne spartita La mancanza di un progetto impedì di condurre un’azione sul variegato fronte

Terminata la seconda guerra mondiale, il Regno Unito tentò di risolvere l’inarrestabile conflittualità nel Mandato palestinese con la proposta Morrison-Grady (31 Luglio 1946), senza venire meno ai suoi interessi sul territorio. Essa riprendeva un vecchio piano di spartizione e prevedeva la divisione della Palestina in quattro zone: una provincia araba, una provincia ebraica, il distretto di Gerusalemme, con un’amministrazione internazionale, e il distretto del Negev retto da un governo centrale sotto influenza inglese. Le quattro unità amministrative avrebbero costituito un unico stato in un regime di ampia autonomia.
Il piano era palesemente favorevole agli interessi della Gran Bretagna che, come osserva lo storico Giovanni Codovini, controllando il Negev per il suo ruolo strategico verso Suez, “avrebbe fatto pesare internazionalmente la sua posizione, rafforzata, tra l’altro, dal trattato del 1946 con Abdullah di Transgiordania”. Il generale rifiuto del piano fu seguito da un altro tentativo fallimentare, sempre promosso dal governo inglese, con la Conferenza indetta a Londra nel settembre del 1946 e a cui dovevano partecipare i rappresentanti degli Stati Arabi e dell’Agenzia Ebraica.
I lavori, che proseguirono fino al Febbraio del 1947, non portarono ad alcun risultato, poiché i rappresentanti ebraici e palestinesi si rifiutarono di partecipare agli incontri.
Il 20 Aprile 1947, constatata l’impossibilità di giungere a una soluzione, la Gran Bretagna decise di internazionalizzare il caso e di sottoporne l’esame all’Assemblea Generale dell’ONU. Le Nazioni Unite istituirono l’UNSCOP (Comitato speciale delle Nazioni Unite per la Palestina), una commissione composta da undici stati (Australia, Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, India, Iran, Paesi Bassi, Perù, Svezia, Uruguay, Jugoslavia), e gli affidarono il compito di indagare sulla situazione in Palestina e proporre una soluzione. I commissari dell’UNSCOP, che non erano degli esperti della regione mediorientale e non conoscevano la reale situazione in Palestina, condussero le ispezioni sul territorio in modo piuttosto sommario. Nei rari sopralluoghi, che effettuarono, vennero sempre ben accolti dalla dirigenza sionista, mentre furono costantemente osteggiati nelle indagini dagli esponenti politici palestinesi. La differenza di comportamento e di trattamento verso la Commissione, nota Ilan Pappe, “ebbe il suo peso sulla decisione di appoggiare la richiesta sionista di partizione quale logica soluzione del conflitto.”
Inoltre gli abili emissari sionisti avevano predisposto uno schema di soluzione per l’UNSCOP, mentre i palestinesi e gli arabi non furono in grado di presentare alcuna alternativa credibile, perché per loro la divisione del territorio era assolutamente inaccettabile.
La mancanza di un progetto e di una correlata strategia pianificata impediva loro di condurre un’azione decisa e coordinata sia sul variegato fronte palestinese sia con gli stati arabi limitrofi e in primis con la Transgiordania. ‘Abd Allah di Transgiordania, infatti, aprì una trattativa, con il beneplacito britannico, con l’Agenzia ebraica per la spartizione della Palestina tra regno hashimita e Stato ebraico. Durante i lavori dell’UNSCOP ebbe un ruolo non secondario la “necessità morale dell’Occidente”, come rileva Marcello Flores, di risarcire in qualche modo la Shoah.

Il primo Settembre 1947 l’UNSCOP pubblicò il rapporto conclusivo, che proponeva a maggioranza (sette membri su undici) la fine del Mandato britannico e la divisione della Palestina in due Stati indipendenti e sovrani, conservando l’unione economica. Gerusalemme veniva posta sotto un’amministrazione internazionale in capo all’ONU al fine di salvaguardare il carattere di città sacra delle tre religioni.
Il Comitato arabo, che era espressione dei principali movimenti politici palestinesi (Partito arabo-palestinese, Partito della difesa nazionale, Congresso della gioventù, partito della riforma, Blocco nazionale) e i governi dei paesi arabi respinsero incondizionatamente la proposta. Essi manifestarono la loro totale avversione alla creazione di uno stato ebraico in Palestina e si ritenevano, in forza di ciò, autorizzati a fare uso della violenza.
Il 29 Novembre 1947 il piano di partizione fu presentato all’Assemblea delle Nazioni Unite con la Risoluzione numero 181 e fu approvata con 33 voti favorevoli (tra cui USA, URSS e Francia), 13 contrari (i 7 Stati arabi, Afghanistan, Turchia, Pakistan, India, Cuba, Grecia) e 10 astenuti, tra cui la Gran Bretagna.
Dal primo Dicembre 1947 e fino alla proclamazione dello stato di Israele (14 Maggio 1948) la Palestina precipitò nel caos totale, come rilevò la Commissione internazionale dell’ONU, che fu incaricata di assicurare l’esecuzione del piano stabilito dalla Risoluzione.
Nei due rapporti del Febbraio 1948 scrisse che “In Palestina [infatti] l’annunzio dell’imminente spartizione aveva moltiplicato gli episodi di violenza e di terrore e messo sul piede di guerra reciproca i due gruppi nazionali.”
Nei mesi della transizione si consumò la “prima fase della guerra civile”, durante la quale il governo britannico boicottò la Risoluzione 181, non consentendo alla Commissione internazionale di effettuare i dovuti controlli sulla Palestina secondo le norme stabilite.

Romeo Ferrari, docente di storia
e filosofia