“Ho visto due volte Dieguito da vicino” – di Raffaele Tomelleri "Sali sul pullman", mi dissero Troglio e Caniggia. Il pullman dell'Argentina, con Diego

Raffaele Tomelleri

“C’è da fare il pezzo sul Napoli, anzi, su Maradona. Sono in ritiro a Mantova, non si sa quando arrivano. Vai…”.
Era la vigilia di Verona-Napoli, settembre 1984. La prima di campionato, la prima di Maradona in Italia. Figurarsi, che confusione. E, diciamolo, che emozione. Ero al giornale da non molto, con la speranza che quel contratto diventasse in-determinato. E infinito. “Vado” risposi. Il “capo” era Adalberto Scemma, sapeva come prenderti e non aveva paura a lanciarti. “Non tornare senza pezzo”, mi disse. Andai. Sapevo che il Napoli sarebbe arrivato all’Hotel Virgilio, il paese era Cerese. Non c’erano navigatori, allora, ma la carta geografica funzionava. Arrivai nel primo pomeriggio. Del Napoli, neanche l’ombra. Ma un paio di macchine della Polizia erano un bel segnale. Sarebbe arrivato, questo contava. Il Napoli arrivò, se non ricordo male, più o meno a metà pomeriggio. Feci in tempo a vedere Maradona infilarsi nella hall, per il momento vietata ai giornalisti o aspiranti tali. Provai a entrare, mi “travestiii” da cliente dell’Hotel, il poliziotto mi lasciò andare. Non mancava molto alla cena. E se fossero andati a tavola, addio pezzo. Dentro l’hotel, il mondo. Mezza Napoli. Intuii che Maradona e il suo clan si erano rifugiati in una stanzetta, per difendersi dall’assalto. C’era il manager dell’epoca, Cyzstepiller, che comandava le operazioni. Uscì a prendere dell’acqua, rientrai con lui. Stanza piccola, almeno venti persone. E Maradona. In piedi. Degli altri, forse quattro o cinque erano colleghi di Napoli, gli altri tifosi, curiosi, napoletani del nord, mantovani. Cyzstepiller li fece uscire. “Dentro solo i giornalisti di Napoli” disse il manager. “Io sono di Verona” dissi. “Ma non posso tornare a mani vuote”. “Allora resta”, mi disse. “Diego parla adesso”. E Diego parlò. Gentilissimo. Gli chiesi pure l’autografo con dedica ai miei figli. Ce l’ho ancora. Lo rividi (da vicino), sei anni più tardi. Mondiali del ’90, Torino, stadio Delle Alpi, Argentina-Brasile, mica scherzi. Ero inviato del giornale, con me c’era il “capo” Adriano Paganella. Lui partita, io spogliatoi. L’Argentina fece fuori il Brasile, 1-0, gol di Caniggia, vecchia conoscenza. Lui e Troglio, già, nel Verona avevano giocato. Così, negli spogliatoi, avevo di sicuro una corsia preferenziale. “Dopo la partita – m’aveva detto Troglio al mattino – vieni giù e seguimi”. Allora si poteva ancora “sognare”. Dopo la partita, andai. Troglio mi vide, mi fece passare. Immaginatevi cos’era lo spogliatoio. L’Argentina aveva appena battuto il Brasile. “Vieni” mi disse Troglio. E mi portò sul pullman dell’Argentina, “così parliamo tranquilli”. Arrivò anche Caniggia. Poi, uno dopo l’altro, ricordo Burruchaga, il portiere Goycoechea, tutti gli altri. L’allenatore, Carlos Bilardo. E lui, Dieguito. Io ero ancora sul pullman, seduto vicino a Troglio, un sedile dietro a Caniggia, due più avanti c’era Maradona. Cantava. Cantavano tutti. Nella confusione nessuno s’era accorto che c’ero e l’autista mise in moto. Troglio mi disse di aspettare, “scendi tra un po’, quando siamo fuori da questo casino”, disse proprio così. La scorta della polizia guidò il pullman, lentamente, fino alla cima dello scivolo. Allora Troglio mi accompagnò fin verso l’uscita. Maradona cantava. Lo guardò. “E’ un amico” disse Troglio. Maradona sorrise.
Io scesi. Mi sembrava di essere sceso dal paradiso.