Joan Baez, tra le figure guida del ‘68 “Prima essere umano, poi pacifista: e soltanto al terzo posto la mia attività di cantante”

Tra le figure guida del Sessantotto, va senz’altro annoverata Joan Baez. Generalmente i mezzi di informazione ci forniscono un’immagine piuttosto distorta di Joan Baez, mettendo sempre in primo piano il suo profilo di cantante, chiamandola “regina del folk” o “l’usignolo di Woodstock”, e facendo solo sporadici riferimenti al suo attivismo sociale, che invece per lei era e ancora rimane prioritario: “Se dovessi mettere delle etichette su di me, la prima sarebbe essere umano, la seconda pacifista e solo se ne potessi mettere una terza sarebbe folk singer.”
Figlia di immigrati, il padre messicano di Puebla e la madre scozzese di Edimburgo, nacque a New York il 9 Gennaio 1941. Il pacifismo
radicale del padre, brillante fisico che si rifiutò di lavorare alla bomba atomica nel Progetto Manhattan negli anni di massima tensione della guerra fredda, incise profondamente su Joan e la indusse ad approfondire la conoscenza del pensiero e dell’azione non violenta di Gandhi e a frequentare Martin Luther King, con cui condivise tante battaglie. Già all’età di sedici anni, nel 1958, compì il suo primo atto di disobbedienza civile, poi approvato dai genitori, quando rimase da sola in aula nella scuola che frequentava, durante la simulazione di un’evacuazione per un attacco aereo. Così motivò il suo rifiuto della prova: “Protesto contro questa stupida esercitazione di incursione aerea perché è falsa, è un inganno. Resto qui, seduta al mio posto.”
Nel 1964 iniziò l’obiezione fiscale, non pagando il 60% delle imposte, perché era destinato a finanziare la guerra degli USA contro il Vietnam del Nord. Nella lettera inviata alla Agenzia delle Entrate dichiarò: “Cari amici, ecco cosa ho da dirvi: non credo alla guerra. Non credo alle armi da guerra. Armi e guerre hanno ucciso, bruciato, deformato, storpiato e causato una serie infinita di sofferenze a uomini, donne e bambini per troppo tempo. […] Non intendo accettare che il 60% delle mie tasse annuali vada a finanziare gli armamenti.”
Si astenne dal pagamento di quella percentuale per dieci anni fino a quando si concluse il conflitto, subendo il pignoramento della casa, del terreno e dell’auto nonché il totale sequestro di molti incassi dei suoi concerti, requisiti prima ancora di pagare
collaboratori e organizzatori degli eventi. Fu sempre convinta che il canto e la musica possono contribuire a cambiare il mondo e renderlo migliore, a differenza di Bob Dylan, che riteneva si potesse solo cantarlo e pensava fosse impossibile cambiarlo.
La ragione profonda della continuità del suo intenso attivismo, che attraversa tutta la sua vita, è esplicitamente espressa in una breve riflessione, scritta a 28 anni nel 1969, mentre era incinta del figlio Gabriel e suo marito David Harris era in carcere, perché renitente alla leva e fondatore di una organizzazione contro la guerra in Vietnam. Scrisse: “Io, che sto qui seduta ad ascoltare Sing Me Back Home di Merle Haggard e a pensare ai bambini che
muoiono in Vietnam, nel Biafra, in India, in Perù, negli Stati Uniti … Con tutte queste cose, come potrei divertirvi? Cantare per voi, questo sì. Spronarvi, rammentarvi, darvi gioia o tristezza o rabbia. E vi dirò … Tenete in considerazione la vita. Date alla vita la priorità su tutto il resto. Sulla terra. Sulla legge. Sul profitto. Sulle promesse. Sulle cose.”
Nel 1965 fondò l’Istituto per lo studio della non violenza e subì due arresti e conseguenti brevi periodi di detenzione nella prigione di Santa Caterina (California) – Ottobre 1967 e tra Dicembre 1967 e Gennaio 1968 – per avere
sostenuto i giovani che rifiutavano la leva, davanti al distretto militare di Oakland. Storicamente fu un volto nonviolento, femminile e proattivo del Sessantotto, che non vedeva nell’altro solo il nemico, l’antagonista o l’oppressore, ma in primis un altro uomo e lo esprimeva nella sensibile attenzione per i bambini.

Romeo Ferrari, docente di storia e filosofia