L’unico importante tema della Natività, è stato realizzato fin dall’antichità lungo i secoli, in periodi, luoghi e da artisti diversi, caratterizzato dai linguaggi delle diverse epoche e proposto dall’arte e dalle simbologie che ne hanno approfondito il mistero che via via si andava rivelando. L’opera che oggi vorrei analizzare è conservata al Museo di Castelvecchio di Verona ed è la Natività realizzata da Francesco Morone (Verona ca. 1471-1529). L’opera è del 1502 circa, ed è una pittura a tempera su tavola anche se in altre descrizioni la tecnica è talvolta segnalata come ”olio su tavola”. La tavola proveniva dalla chiesa parrocchiale di Santa Maria a Tregnago ed era insieme a un’altra tavola raffigurante San Giovanni Battista – il registro inferiore di una pala d’altare proveniente da quella chiesa. Le due tavole entrarono nelle collezioni civiche veronesi nel 1910. Dalla riproduzione fotografica presente nell’ archivio del museo si vede la scena della Natività con la Madonna in atteggiamento di devozione vicino al Bambino nella mangiatoia; lo sfondo è rustico (grotta/stalla) ed è caratterizzato da attenzione al dettaglio tipica della pittura veronese di primo Cinquecento. La scena rappresenta la nascita di Cristo in un’ambientazione semplice e raccolto, caratteristica della pittura veronese del primo Cinquecento. Gli elementi principali che la compongono sono: La Vergine Maria, inginocchiata davanti al Bambino, non concepita come una figura regale ma come giovane madre che contempla quel figlio che porta in sé la salvezza del mondo. Il volto è dolce e gli occhi sono abbassati in segno di umiltà. San Giuseppe come spesso, lo troviamo che appare leggermente arretrato in posizione laterale, con un atteggiamento protettivo e meditativo, secondo un modello iconografico tipico del Quattro-Cinquecento veronese. Il Bambino Gesù è adagiato su un drappo chiaro utile anche per staccare la figura rispetto ai colori della terra, secondo l’iconografia mistica legata alle visioni di Santa Brigida di Svezia. Morone come già accennavo, colloca la scena in una capanna rustica, costruita con travi robuste e aperta verso il paesaggio collinare, luminoso, con alberi stilizzati e piccole architetture, che alleggerisce la scena conferendo un’atmosfera serena e pastorale. Come in altre occasioni, Morone inserisce piccoli angeli musicanti o adoranti, in atteggiamenti delicati e composti sottolineando così la sacralità del momento senza rompere però l’intimità domestica. I colori sono morbidi, tenui, soprattutto azzurri, rosa, terre chiare. La luce è diffusa e calma ed è quasi assente il chiaroscuro drammatico. La Natività di Francesco Morone non cerca dramma, ma equilibrio. È una teologia potremmo dire, della mitezza. E’ una celebrazione della tenerezza del divino. Non si vuole stupire con miracoli o simboli complessi, ma far entrare lo spettatore nella stanza dove nasce la speranza. L’opera esprime un cristianesimo quotidiano, fatto di cura, di silenzio, di luce tranquilla. È una delle declinazioni più pure della spiritualità veronese del primo Cinquecento: calda, pacificata, profondamente umana.



