Quell’articolo 11 parla alla coscienza E fa riflettere sulle ragioni storiche e culturali che hanno portato a questo conflitto

L’articolo 11 della Costituzione italiana recita testualmente che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
Questo articolo fondamentale, appartenente alla sezione dedicata ai principi fondamentali sui quali lo Stato si fonda, si pone, come si nota agevolmente, da un duplice punto di vista: innanzitutto, esso stabilisce che l’Italia non intende, programmaticamente, avviare guerre di conquista o, più in generale, di offesa; d’altro canto – ed è l’aspetto più importante, viste le contingenze attuali – l’articolo sancisce anche il rifiuto del principio stabilito da von Clausewitz, secondo il quale la guerra sarebbe la continuazione della politica con altri mezzi, vale a dire, con mezzi che esulano dal confronto diplomatico.
Eppure, è notizia recentissima che il Presidente del Consiglio italiano, nel rivolgersi al Parlamento, ha aperto il proprio discorso ricordando, quasi fosse una cosa scontata, che il conflitto attualmente in corso in Ucraina ha ricordato agli italiani e agli europei che la pace non è alcunché di scontato, e che, di fatto, lo status geopolitico sancito con la fine del secondo conflitto mondiale ha generato un’illusione di serenità e stabilità che, è logico pensare, sarebbe stato destinato prima o poi a implodere.
Ora, senza dubbio l’Europa unita nata e sviluppatasi nei decenni successivi alla guerra presenta una serie di difetti e di debolezze – in prima istanza, l’assenza di una vera unità politica tra gli Stati membri.
D’altra parte, parrebbe impossibile non riconoscere all’Unione il merito storico di avere in effetti garantito il più lungo periodo di pace sul territorio del vecchio continente. Che sia davvero così è altra questione, basti ricordare i conflitti nei Balcani tra i popoli che un tempo afferivano alla Jugoslavia, avvenuti a pochissima distanza dal confine italiano e che però, pare di capire, vengono demandati a un ambito vagamente “orientale”, per non dire sovietico, lontano da quella presunta “cultura europea” che sembra essere l’unico vero baluardo che definisce non solo l’Europa stessa, ma anche e conseguentemente implica la valutazione di quei popoli che non sembrano rientrare in questa stessa cultura. La naturalezza con la quale si parla, oggi, di guerra e di possibile escalation, che sarebbe inevitabilmente e tragicamente di carattere termonucleare, è inquietante e dovrebbe indurre a una riflessione non solo contraria alla guerra in quanto tale, ma anche a un fruttuoso ripensamento delle ragioni storiche e culturali profonde che hanno condotto a questo conflitto, tra le quali l’atlantismo selvaggio, l’imperialismo culturale americano e un indefinito eurocentrismo sotto l’egida statunitense hanno pure una loro parte, che è fatuo e controproducente negare, pur di fronte alle evidenti, innegabili ed esecrabili responsabilità di chi ha materialmente avviato lo scontro.

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