Sulla sanità pubblica e per un lavoro dignitoso parte la sfida della Cgil che per un approfondimento si è data appuntamento nella Sala San Giacomo in Borgo Roma.
I contenuti sono stati presentati da Francesca Tornieri, segretaria generale Camera del Lavoro Cgil Verona; Simone Mazza, segretario Fp Cgil Verona; Graziella Belligoli, segretaria generale Filcams Cgil Verona; Adriano Filice, segretario generale Spi Cgil Verona.
Sul tappeto, tra gli altri, lo scottante tema dei tagli imposti al servizio di contact center dell’Ulss 9.
La vertenza ancora in corso del personale della cooperativa Morelli che gestisce i contact center degli ospedali dell’Ulss 9, destinataria della quota più pesante dei tagli decisi dalla direzione aziendale per rientrare negli obiettivi fissati dalla Regione, rappresenta per il sindacato l’emblema della modalità di gestione della sanità, radicato da anni, ma che ormai ha raggiunto il limite di sopportazione per lavoratori e utenti.
ALCUNI NUMERI. In Ulss 9 il costo del personale (300 milioni di euro) rappresenta meno del 16% del valore della produzione (313 milioni di euro su un valore della produzione di 1,9 miliardi), tra i più bassi in assoluto. Questo a causa dell’esagerato ricorso all’acquisto di prestazioni da terzi: ben 492 milioni di euro nel 2023 per prestazioni ospedaliere e altri 196 milioni di euro per l’assistenza specialistica. Una montagna di denaro che per buona va nelle tasche dei privati accreditati (che non mettono un centesimo sull’emergenza sanitaria) e per il resto all’Aoui. Per dare un metro di paragone, l’intero sistema della medicina di base costa all’Ulss poco più di 100 milioni di euro, mentre l’intero sistema dei servizi socio-sanitari a rilevanza sanitaria (disabilità, anziani, assistenza domiciliare, tossicodipendenze ecc.) costa circa 146 milioni circa dopo anni di battaglie per adeguare la spesa per le rsa.
L’anomalia veronese è evidente e nota: in Ulss 9 soltanto il 40% delle prestazioni vengono prodotte in proprio mentre il 60% viene comprato da privati e da altre istituzioni sanitarie pubbliche. Nel resto delle aziende sanitarie venete, con l’unica eccezione dell’Ulss 6, la situazione è diametralmente opposta, con almeno il 60% delle prestazioni prodotte in proprio e il 40% acquistate. Lungi dal preoccupare la Regione, il caso veronese viene anzi portato a modello della più riuscita applicazione della “via veneta” alla privatizzazione della sanità.
Ne è dimostrazione l’ultimo decreto “liste di attesa” della giunta regionale, che destina 40 milioni di euro per l’acquisto di prestazioni aggiuntive a metà tra pubblico e privato. Si tratta di un immenso travaso di risorse dai lavoratori pubblici della sanità, che dal 2018 subiscono (da destra e da sinistra) i tetti alle assunzioni, mentre il privato accreditato prolifera senza che gli sia chiesto di investire un solo euro.
MOLTI APPALTI A TANTO LAVORO PRECARIO. Un altro problema urgente è la gestione degli appalti, che spesso porta alla proliferazione di contratti precari, a basso salario e con condizioni di lavoro insostenibili. Questo sistema crea una classe di lavoratori e lavoratrici precari, sfruttati e privi di garanzie. La fragilità del lavoro si riflette direttamente nella fragilità del sistema sanitario, alimentando un circolo vizioso che indebolisce ulteriormente il diritto alla salute.