Tra tormenti e assurde coincidenze Nel film “L’uomo invisibile’’ Cecile è vittima di un matrimonio violento e penato

Cecile è una giovane donna vittima di un matrimonio violento con uno dei più ricchi magnati nel campo delle invenzioni ottiche. Con l’aiuto della sorella riesce a fuggire, trovando riparo in casa di un amico poliziotto e di sua figlia. Quando giunge la notizia del suicidio del marito, Cecile è convinta di poter ripartire con una nuova vita, finché strani fenomeni e assurde coincidenze non la porteranno a sospettare che lui possa essere tornato a tormentarla… Alla sua seconda collaborazione con la casa di produzione Blumhouse, Leigh Whannell prosegue nell’esplorazione di distopie tecnologiche e degli effetti dell’uso di questi strumenti sulla quotidianità del nostro tempo. Come già nell’ottimo Upgrade, al livello di linguaggio cinematografico si tratta di prendere i paradigmi del genere e rilanciarli a partire da una prospettiva meno spettacolarizzante, più vicina – e più inquietante – al possibile vissuto dello spettatore. I tratti del thriller psicologico-soprannaturale assumono così tutto un altro colore, e persino una storia di stalking delle più canoniche acquista il potenziale necessario per assumersi a critica di una società voyeuristica, di una collettività che attraverso gli occhi onniveggenti delle videocamere fa dell’idea della persecuzione una questione d’abitudine. L’uomo invisibile (da un racconto H.G. Wells, già adattato da Carpenter e Verhoeven) racconta infatti la storia di un amore malato nel quale l’uomo, convinto di possedere la donna, infesta la realtà di lei fino a rendersi presente come minaccia costante persino nella sua assenza fisica. Adrian è un genio in ascesa nel campo delle tecnologie ottiche, l’invadenza del suo sguardo passa attraverso apparecchi spia installati negli angoli più insospettati della loro casa: l’occhio che osserva da prospettive più strane diventa dunque un personaggio onnipervadente, supportato con grande cura da una regia che inquadra i protagonisti a partire da punti di vista ciechi (la nuca, le spalle, gli angoli vuoti delle case), come a far intendere quanto persino l’invisibile sia in qualche misura manipolabile. Con una scrittura secca ed efficace Whannell combina le istanze etiche con il puro intrattenimento, che in questo particolare prodotto affonda le sue radici nel thriller d’alta tensione: non soltanto il punto di vista di una donna abusata che rievoca e allucina il trauma nella realtà, ma la presenza di uno sguardo reale, che è anche quello della tecnologia post-umana al cui predominio il soggetto non può sfuggire. Elizabeth Moss, nei panni di Cecile, fa un lavoro incredibile nella modulazione della profondità del suo sguardo, capace di passare dalla lucida determinazione all’accesso di follia da un fotogramma all’altro. I dubbi dello spettatore si sciolgono poi nella maniera meno prevedibile possibile con un logico e vincente finale, che nella sua semplicità ribalta i ruoli di forza e gli equilibri interni dell’intera vicenda, ricordandoci che ogni strumento è, in ogni caso, sempre manovrabile da un soggetto dotato di volontà e intenzioni proprie.

Maria Letizia Cilea