Tra violenza di genere e patriarcato. Nei secoli la divisione dei ruoli ha relegato la donna alla sfera domestica, mentre l’uomo…

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«Lui mi controlla perché mi vuole bene». «È geloso e irruento perché mi ama». «Mi ha maltrattato ma poi abbiamo fatto pace e si è fatto perdonare». Questa è violenza, non è amore. È una strategia. A sottolinearlo, all’indomani di un’ennesima tragedia sfociata nell’uccisione di una donna, è Ermanno Marogna, counselor e mediatore familiare, veronese, collaboratore col centro antiviolenza del Cat Lune Nuove di Campogalliano (MO). «La violenza di genere», spiega Marogna, «è un fenomeno antico legato al patriarcato e per molti secoli la nostra cultura ha legittimato la violenza anche attraverso la giurisprudenza. Nei secoli la divisione dei ruoli ha relegato la donna alla sfera domestica e l’uomo a quella pubblica, consolidando un sistema di potere fondato sul controllo e sull’autorità. Il potere economico, concentrato nelle mani maschili, ha generato dipendenze che ancora oggi rendono difficile per molte donne liberarsi da relazioni violente. E ancora oggi la disparità salariale e la scarsa valorizzazione del lavoro femminile continuano a riflettere questa disuguaglianza strutturale». A tutto ciò si aggiunge una complicità culturale, spesso inconsapevole, che porta a minimizzare o giustificare la violenza. «Siamo intrisi di modelli educativi e stereotipi che hanno insegnato alle donne la tolleranza e la rinuncia, rendendo la violenza più difficile da riconoscere». E da denunciare, specialmente quando ci sono figli o si convive sotto uno stesso tetto. Anche se a compiere violenza non sono solamente mariti o fidanzati. «La violenza è messa in atto, spesso, anche dai padri, dai parenti di sangue, dai colleghi». Manifestandosi in molti modi. Quella psicologica è la prima forma di violenza. Si ripete ciclicamente seguendo un crescendo e quindi creando una circolarità, e ha lo scopo di mantenere il potere, ossia il controllo e il dominio, sulla vittima. «Si concretizza attraverso menzogne, denigrazioni, svalutazioni, offese. L’uomo, in modo subdolo e con la scusa della gelosia, fa in modo che la donna riduca i contatti col mondo esterno, magari abbandonando il lavoro o smettendo di frequentare le amiche. In sostanza la violenza psicologica è una variante del bullismo, perché ha la stessa radice: annientare l’altro. Ma diventa più complessa da riconoscere e ammettere perché avviene nel posto che dovrebbe essere il più sicuro: lo spazio di una relazione. Invece è l’inferno». La violenza fisica, quella economica e quella sessuale sono conseguenze dirette e drammatiche della violenza psicologica. «Botte, pugni e calci, così come il controllo assoluto del denaro e l’abuso sessuale, esercitato quando si costringe la donna a soddisfare i desideri sessuali altrui contro la propria volontà, esprimono il massimo del potere sulla vittima. E arrivano per impedire alle donne di ribellarsi, magari insieme a minacce e ricatti». Ma allora perché le donne spesso non denunciano? «Hanno paura», ricorda Ermanno Marogna, «si vergognano, non sanno dove andare, temono ritorsioni sui figli e sui parenti. Purtroppo quando emerge la violenza è già tardi. Significa che tutto ciò che è avvenuto prima non è stato riconosciuto ed è stato normalizzato». E ci ricorda: «II raptus di cui si parla di solito in realtà non esiste, è un falso. Esiste semmai una relazione in cui l’uomo segue in maniera intenzionale una strategia volta a possedere e controllare la donna fino ad arrivare a sottometterla». E dunque non ci sono alternative, e il consiglio su come comportarsi arriva forte e chiaro: «Segnalate, denunciate, girate alla larga da uomini che utilizzano la violenza psicologica, la più difficile da riconoscere ma che anticipa sempre quella fisica. E se non diventa fisica, è comunque sufficiente per annientare una donna e rovinarle la vita».