Un’abitudine mantenuta nel tempo, il sabato e la domenica venivi in centro ed eri sicuro di incontrare qualche amico, rivedere facce note, qualche parente, e tenevi allacciati i rapporti dopo settimane di lontananza. Adesso nel fine settimana i veronesi appena possono scappano dalla città: chi in Lessinia, a Cerro o Bosco Chiesanuova, chi sul lago a Torrio a San Zeno di Montagna. E non mi dilungo sul degrado che dilaga: in pieno giorno sotto i portici di via Roma c’erano sette senza fissa dimora, qual cuno dormiva nei cartoni, qualcuno chiedeva l’elemosina. Sette, più quelli sotto i portici di Unicredit e gli altri sbandati sulle panchine vicine alle scale per i servizi igienici pubblici. Ma questa è un’altra pagina del romanzo. La sensazione di oggi (e siamo in autunno…) è che la città è in mano ai turisti, quasi tutti stranieri e tu ti senti straniero nella tua città dove trovare una espressione in dialetto (che non sia una imprecazione) è sempre più raro e ti perdi nelle mille lingue, dove i negozi sono sempre più di cibo, fast food, una mensa a cielo aperto. E i negozi che ti servono sono spariti, soppiantati da quelli utili al turista che dorme qualche notte nel B&B. Sono sempre più i veronesi infatti che per vestirsi devono ricorrere ai centri commerciali o agli outlet fuori città: Mantova, Brescia, Vicenza e così via. Forse proprio i grandi centri commerciali hanno anche loro molte responsabilità in tutto questo. Il mondo è cambiato, inutile farsi prendere dalla nostalgia. Ma è la constatazione di un fatto: i veronesi non frequentano più il cuore della loro città. Anche perché è sempre più difficile riconoscerla. L’esplosione del turismo di massa ha asfaltato tutto: abitudini, commercio, professioni, ricordi. Il turismo di massa, l’overtourism sta facendo scomparire l’anima di Verona. Quella che si trovava nelle botteghe artigiane dei vicoli, nei negozi storici, nei locali pubblici, nelle librerie, nelle gallerie d’arte, nei piassaroti con i bomboloni e le verdure (ora solo souvenir o prodotti fatti in serie). Tutto cambia, è corretto, e il fenomeno avviene anche in tante altre città. Ma fino a non molti anni fa c’era un tessuto sociale che sapeva di Verona, potevi ascoltare il respiro della città. Questo respiro della città, questo sapore di Verona lo stiamo perdendo. O forse lo abbiamo perso. In nome di cosa? Del profitto di qualcuno che impoverisce tutti? La riflessione, amara ma non pessimista, prende spunto dalle ultime iniziative di questa amministrazione (che non è certo più responsabile delle altre che hanno dato il via a questo fenomeno senza alcun paletto): il riordino, votato dal Consiglio comunale, delle locazioni turistiche e il censimento delle licenze del cibo. Si ha l’impressione, ma forse è più un vero timore, che i buoi siano ormai già scappati lontano e chiudere la stalla può servire a gran poco. A Verona le locazioni turistiche sono passate da una trentina nel 2012 a ben 3000 nel 2024, di cui 2000 solo nel Centro Storico (dati comunali). Una proliferazione di locazioni turistiche che ha contribuito all’espulsione di residenti e all’aumento insostenibile dei canoni di affitto. Ma non solo: non sono stati espulsi solo i residenti ma anche tanti studi professionali di notai, avvocati, architetti, professionisti che si sono spostati fuori dal centro storico. E questi appartamenti restano vuoti pronti ad essere trasformati in nuovi B&B. Se vi fermate davanti ai portoni dei palazzi e controllate le eleganti citofoniere in ottone, sono spariti i cognomi. Ci sono solo numeri, cifre, codici delle locazioni turistiche. I palazzi sono ormai abitati da turisti-trolley, due giorni e via. Le famiglie? Bye bye.E questi turisti-trolley, viaggiatori compulsivi, hanno bisogno di mangiare e allora ecco l’esplosione della mensa a cielo aperto. II censimento delle licenze del cibo è buona cosa, meritevole, ma fa sorgere la domanda: nessuno aveva la situazione sotto controllo prima? Il commercio è libero, è vero, ma qualche indirizzo le città riescono a darlo. Nessuno si è accorto che sparivano negozi di tessuti e botteghe artigiane e aprivano fast food e cibi da asporto per una orgiastica indigestione di odori e sapori? Se ne dovevano accorgere i giornali americani? Si cominci pure il censimento delle licenze del cibo, ma ormai, in questa città che sta perdendo la sua anima, siamo già all’amaro e all’ammazzacaffè.