Architetti: aggiornarsi per rinnovarsi Ripercorriamo insieme la lunga carriera del veronese Romualdo Cambruzzi

Com’è iniziato il suo percorso da architetto?

“Ho cominciato a vent’anni a insegnare in un liceo artistico della città, prima assistendo il mio professore, poi ottenendo la cattedra per 10 anni in disegno geometrico e architettura. Si trattava di un’esperienza parallela agli studi universitari, conclusi a 25 anni con la laurea in architettura a Venezia, dove ho avuto la fortuna di conoscere i migliori professionisti in Italia del momento, come Bruno Zevi e Carlo Scarpa. Dal 1968 in poi l’università si è un po’ sfaldata a causa delle contestazioni, così fui costretto ad abbandonare il ruolo di assistente in una materia umanistica. Ho iniziato a lavorare da alcuni miei colleghi per qualche anno, finché nel 1969 non ho aperto il mio studio ricevendo i primi incarichi”.

Di cosa si è occupato principalmente?
“Il mio lavoro è stato caratterizzato non da un’unica linea professionale, ma ho coperto tutte le attività possibili per un architetto, a partire dalla pianificazione urbanistica, curando per una decina d’anni piani regolatori in diversi comuni della provincia di Verona. Poi l’ho abbandonata perché non si faceva progettazione, non potevi esprimere la tua creatività e avere una soddisfazione professionale. Così sono passato nel campo dell’edilizia pubblica e industriale, fino al restauro architettonico e al recupero edilizio urbanistico, esprimendo l’attività in modo coerente con le mie capacità”.

I progetti di cui va più fiero?
“Ho curato dal 1986 al 1990 la progettazione del Centro Ricerche della Glaxo di Verona, un incarico eccezionale per un piccolo studio com’era il mio, seguendo anche la direzione artistica. Il progetto si è qualificato tra i trenta finalisti per il premio internazionale Quaternario 1990 per tecnologie innovative in architettura. Mi sono poi occupato del recupero edilizio del Duomo di Verona, con uno studio preliminare nel 1975; nel 1991 sono iniziati gli interventi, durati 6 anni, riguardanti la ristrutturazione di 12 appartamenti dei Canonici, l’ampliamento della Biblioteca Capitolare e la formazione del Museo Canonicale. Per la Croce Verde, dove sono stato consigliere per 15 anni, ho coordinato 2 interventi di ristrutturazione e ampliamento, nel centro operativo in Lungadige Panvinio e nella nuova sede di Borgo Roma”.

Com’è cambiato negli anni il mestiere dell’architetto?
“Nel nostro lavoro è fondamentale un aggiornamento costante. Il vantaggio è che si è meno ripetitivi, non ancorandosi a esperienze già fatte ma cercando sempre di innovarsi. Una delle maggiori difficoltà è stato passare nel 1995 dal tecnigrafo, il tavolo da lavoro principale con squadre e goniometro, alla progettazione con l’AutoCAD al computer: i miei dipendenti non erano in grado di usarlo, così li mandai a lezione, dove perdevano più tempo a giocare che a studiare. Per disperazione anch’io ho dovuto imparare per controllare e mettere le mani sul loro lavoro. Al giorno d’oggi poi c’è una grande attenzione verso i risparmi energetici, negli ultimi miei edifici non esiste più un impianto a gas, perché si sostituiscono le cucine con piastre elettriche a induzione, riscaldamenti con pannelli solari e fotovoltaici per l’acqua calda, con condensazioni dell’energia affinché l’edificio abbia prestazioni energetiche eccezionali, introducendo anche un po’ di domotica”.

Quale sarà il futuro dell’architettura?
“Bisognerà avere sempre una maggiore attenzione ai problemi sociali, al recupero del tessuto urbanistico, delle periferie, delle grandi aree che si stanno dismettendo, nel rispetto delle caratteristiche strutturali e di utilizzo degli edifici. Con il repentino cambiamento dei sistemi economici le città dovranno seguire la trasformazione del centro storico senza alterarne la funzionalità. Nella classe professionale degli architetti ci sono dei giovani bravissimi, attenti e preparati, ho fiducia nella loro energia nell’affrontare temi nuovi”.

A cura di Jacopo Segalotto