“Così ho portato Jorginho al Verona” Parla Gibellini, “...oggi pensionato, ma pronto a tornare, se capita l’occasione giusta...”

Da Portogruaro, andata e ritorno. Mauro Gibellini ne ha fatta di strada, da quando si destreggiava bomber in erba nelle giovanili del Milan, fino al rientro da direttore sportivo nelle sue terre. Diverse
le casacche indossate da ricordare, assieme ai tanti infortuni e a qualche rimpianto: “Non avessi avuto quell’infortunio al ginocchio a 14 anni nel Milan, chissà come sarebbe andata la mia carriera. Nell’81 invece arrivai a Verona con Bagnoli, fummo subito promossi in serie A. Quando si è giovani si è un po “testoni”, mi giravano le scatole di non esser sempre titolare e così a metà della
seconda stagione me ne andai al Bologna. Capitai in un anno disgraziato: arrestarono il presidente, cambiarono 3 allenatori e cosi finimmo in serie C. Viste poi come sono andate le cose, sarebbe stato decisamente meglio rimanere a Verona…”.
Smessi i panni del giocatore, eccolo direttore sportivo, comincia dal basso, ma fa presto a uscire dal limbo. Un esempio? Pesca Damiano Tommasi nel San Zeno e lo porta all’Hellas, fino alla sua scoperta più splendente con Jorginho.
Come parte la “creazione” di Jorginho?
La storia di Jorginho è questa: io ero in Brasile a visionare un altro giocatore nella mia prima esperienza da DS nel Verona, nei ritagli di tempo andavo a vedere delle partite di paese e notavo
sempre giocatori interessanti. Mi venne subito l’idea di fondare una scuola calcio e grazie a dei finanziatori riuscimmo a fondarne una a Guadiruba e a convincere il giovane Jorginho a venire nella nostra, nonostante le diverse richieste.
Come fece a convincerlo a venire proprio da voi?
Andai con urgenza a parlare personalmente con la madre (che ha origini Italiane, Frello di cognome), in quanto l’indomani avrebbe avuto un provino con il San Paolo. Non fui io a portarlo fisicamente in Italia, ma senza di me avrebbe fatto molta fatica a sfondare.
Il Verona lo acquista per una cifra irrisoria, e poi cosa succede?
Dopo la trafila nelle giovanili, lo mandai a fare esperienza nella Sambonifacese in C2. L’anno successivo con il Verona in serie B cercai di imporlo a Mandorlini, ma il mister storse il naso perché
voleva più esperienza a centrocampo. Volevamo darlo via, rimase in rosa, ma senza grandi speranze”.
Chi c’era principalmente a credere in lui?
Gli unici a credere fortemente in lui erano il sottoscritto e il presidente Martinelli. Il suo debutto contro il Torino non fu dei migliori, posizionato in ruolo non suo, giocò male e la stampa se la prese anche con lui. Nelle partite successive Mandorlini lo posizionò nel suo ruolo naturale e col tempo è diventato il campione che tutti conosciamo.
E poi arriva anche il discorso Nazionale, anche qui grazie a lei.
Ero sicurissimo potesse arrivare in nazionale, ma nessuno a Verona gli dava retta. Prendemmo un avvocato brasiliano che viveva in Italia e in 6 mesi lo naturalizzò italiano. Vedevo poi che nessuno lo chiamava nell’under 21 e allora chiamai il mio amico Maurizio Viscidi (responsabile del settore giovanile degli azzurri), e piano piano cominciarono a convocarlo. Ventura successivamente lo
bocciò per la nazionale maggiore, fino a quando con l’acqua alla gola lo convocò nello sfortunato spareggio con la Svezia e Jorginho fu anche li uno dei migliori.
Oggi Gibellini cosa fa?
Mi godo la vita da pensionato…(ride). Sono tornato a Portogruaro, continuo a guardare un sacco di partite e ho avuto anche quest’anno delle proposte da piazze importanti in serie C, gestite però da società non particolarmente affidabili. Se capita l’occasione giusta non nego mi farebbe piacere tornare, ma non ho voglia di farmi venire il “sangue amaro”. Il calcio è sì un lavoro, ma soprattutto divertimento”.
Fabio Ridolfi