E all’Olimpico entrò la morte 28 ottobre 1979, Roma-Lazio. Un razzo, muore Paparelli DENTRO LA STORIA: gli eventi che hanno segnato un'epoca

Questa mattina Pino Wilson ha fatto una telefonata. Il 28 ottobre di ogni anno la persona che chiama è sempre la stessa. Pino Wilson è il capitano della Lazio che nel 1974 vinse il primo leggendario scudetto della sua storia.
Un branco di cavalli selvaggi domati da Tommaso Maestrelli, uomo che come Robert Redford in una celebre pellicola ai cavalli, sapeva sussurrare le parole giuste. Come ogni anno, Pino ha chiamato Gabriele Paparelli: aveva 8 anni quando suo padre Vincenzo, tifoso della Lazio, il 28 ottobre del 1979, perse la vita nella Curva Nord dello stadio Olimpico dove si trovava per assistere insieme alla moglie al derby Roma-Lazio. Vincenzo non era un ultrà, aveva 33 anni e faceva il meccanico nell’officina condivisa col fratello Angelo.
Lui, la moglie Wanda e i due figli Marco e Gabriele abitavano in una palazzina del quartiere Casalotti, zona nord-ovest di Roma. E pensare che Vincenzo Paparelli allo stadio non doveva nemmeno andarci. Pioveva e il programma prevedeva una domenica in famiglia. Ma quando il cielo sopra il Cupolone si liberò delle nubi, non seppe resistere. Perché il derby è il derby. Vincenzo prese in prestito dal fratello l’abbonamento e con Wanda a braccetto si recò all’Olimpico
La coppia prese posto in Curva Nord tra i tifosi biancocelesti, lui scartocciò e si gustò il suo bel panino alla frittata. Nonostante fosse la domenica del derby, lo stadio non era pienissimo, anzi. Erano quelli gli anni di piombo e in città serpeggiava il timore di tafferugli. In più, Roma e Lazio stentavano: da una parte Nils Liedholm stava faticosamente avviando un processo di ricostruzione, dall’altra la favola della Lazio era ai titoli di coda, vittima di una tragedia dopo l’altra, dalla morte di Maestrelli a quella assurda di Luciano Re Cecconi. Sembrava quasi che il destino si stesse accanendo senza pietà su quella squadra. E alle 13.20 del 28 ottobre del 1979 il destino aggiunse un altro tragico capitolo: dalla curva opposta, sede del tifo romanista, partirono tre razzi; il secondo si conficcò nell’occhio sinistro di Vincenzo Paparelli: «Non morire, non morire! Abbiamo due figli!» gli urlava Wanda disperata. Ma quando arrivò all’Ospedale Santo Spirito, Vincenzo non respirava già più. Allo stadio infuriò la guerriglia, Pino Wilson andò sotto la curva a cercare di placare gli animi.
A sparare il razzo nautico antigrandine, fu un diciottenne, Giovanni Fiorillo, imbianchino disoccupato con i buchi nelle braccia e un paio di precedenti per furto. I razzi li aveva acquistati per 15mila lire l’uno, insieme a un amico in un negozio di caccia e pesca. Si diede alla macchia in Svizzera: si costituì quattordici mesi dopo.
Condannato nel 1987 a sei anni e dieci mesi per omicidio, morì il 24 marzo del 1994 a 33 anni. Al funerale di Vincenzo Paparelli si radunò nel dolore una folla commossa di migliaia di persone.
Tuttavia, per lui non ci sarebbe stata pace: per anni il figlio Gabriele si è munito di secchio, colore e pennello per cancellare dai muri di Roma le scritte offensive alla memoria di suo padre. Per non dire di certi cori che ancora si sentono quando Roma e Lazio s’incrociano. Come se quella tragedia non avesse insegnato nulla. Eppure, gli stadi son vita, e non cimiteri.
Elle Effe