E’ la Conferenza dei “bocconi amari” – di Martina Bazzanella Parigi 1920, al tavolo per ridisegnare l’Europa: per l’Italia una manciata di fumo

21/01/2022: 102 anni fa, il 21 gennaio 1920, si chiudeva ufficialmente la conferenza di pace di Parigi.

La storia. Alle 11 dell’11 novembre 1918, dopo 1562 lunghi giorni di massacro tra le trincee, i soldati esultavano per l’entrata in vigore del cessate il fuoco. Quattordici milioni di morti, venti milioni di feriti e un costo complessivo pari a cinquemila miliardi di dollari incombevano minacciosi sul mondo intero, ma in quell’esatto momento contava solo una cosa: dopo oltre quattro anni, la Grande Guerra era giunta al termine, la gente riusciva finalmente a immaginare un futuro di pace e speranza. Ma il percorso per arrivare alla tanto attesa pace era ancora lungo: la Conferenza di Parigi prese le mosse il 18 gennaio 1919 e si concluse – dopo numerosi intervalli – il 21 gennaio 1920. È considerata uno degli episodi contrastati della storia politica del secolo scorso.

La Conferenza di Parigi
Il 18 gennaio 1919, nella celebre sala degli specchi di Versailles, 27 nazioni si riunivano per ridisegnare la cartina geografica dell’Europa e decidere le sorti di vincitori e vinti. A tenere le redini i quattro stati vincitori, rappresentati dai cosiddetti big four: il Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, il primo ministro britannico David Lloyd George, il primo ministro francese Georges Clemenceau e il presidente del consiglio italiano Vittorio Emanuele Orlando. Nonostante fossero uniti da un obiettivo comune, i leader erano guidati da visioni e ragioni ben differenti nella loro azione diplomatica: al progressismo di Wilson si opponeva fermamente lo spirito conservatore di Clemenceau, determinato ad annientare la già sconfitta Germania. La conferenza di Parigi culminò in cinque trattati che delineavano il nuovo assetto geopolitico. I paesi sconfitti furono interpellati solamente mesi dopo, in occasione della firma dei trattati che li vedevano protagonisti.

Germania e Italia: tra umiliazione e mutilazione. Fu la Germania a pagare il prezzo più caro. Con la ratifica del trattato di Versailles –definito Diktat – l’Impero Tedesco subì grossi tagli sul fronte militare e territoriale. A mettere lo stato in ginocchio furono però i debiti di guerra; alla Germania venne infatti chiesto di firmare un assegno in bianco, il cui importo stabilito ammontava a 132 miliardi di marchi-oro. Si scatenò un’inflazione mai vista prima, cui si sarebbe sommata in seguito la crisi del ’29 e il rafforzarsi di una violenta forma di nazionalismo, poi culminata nella tragica nascita del totalitarismo nazista.

Bocconi amari. Anche l’Italia dovette mandar giù bocconi amari: pur essendosi guadagnata un posto al tavolo dei vincitori, con i trattati di pace gli venne concesso poco più che una manciata di fumo. Ben presto, la penisola venne scossa da numerose ondate di ribellione. La più celebre fu quella guidata dal poeta Gabriele D’Annunzio, che con l’ammonimento «vittoria nostra, non sarai mutilata» si getterà nella missione revanscista dell’occupazione di Fiume.
A distanza di un anno dalla fine della guerra, il malcontento generale aveva ormai preso il sopravvento. Come scrisse lo scrittore austriaco Stefan Zweig: «La guerra era finita, ma in realtà non era così. Solo che ancora non lo sapevamo».