Einstein e quella lettera a Roosevelt Lo scienziato scrisse al Presidente americano: “Attenzione alle armi della Germania”

Nel 1939, Albert Einstein firmò una famosa lettera, non scritta integralmente da lui, indirizzata al presidente americano Roosevelt, nella quale il fisico paventava la possibilità che la Germania nazista potesse essere in procinto di sviluppare una bomba atomica, basata sul rilascio di energia generato dalla fissione a catena di atomi pesanti. La Germania non riuscì a completare la costruzione dell’arma, ma la lettera condusse Roosevelt a potenziare il programma di ricerca e di armamenti, a costruire effettivamente la bomba e a utilizzarla, con conseguenze catastrofiche. Einstein, dalle radicate convinzioni pacifiste, disse in seguito di essersi pentito della propria presa di posizione.
Questo celebre evento è diventato un esempio cardine all’interno della discussione sulla responsabilità, o meno, della ricerca scientifica rispetto alle applicazioni pratiche dei suoi risultati. La domanda è la seguente: nel momento in cui uno scienziato, o un gruppo di scienziati, sviluppa una teoria ed elabora esperimenti atti a dimostrarla, deve tenere in conto la possibilità che tale teoria possa essere applicata per produrre un danno?
Può sembrare che un problema di questo tipo interessi solo quelle ricerche per le quali è prospettabile un’applicazione bellica; ma le ricerche sulla fissione nucleare sono un buon esempio della difficoltà della questione, perché l’energia rilasciata durante il processo può essere tanto benefica – in quanto costituisce una fonte relativamente pulita – quanto estremamente dannosa. Ciò che vale la pena considerare è che le ricerche non sono tutte uguali: sviluppare una ricerca applicata su un’arma per renderla più efficiente non è la stessa cosa che cercare una fonte di energia, per quanto potente, che risolva il problema di approvvigionamento da risorse non rinnovabili.
Si può dire, quindi, che la ricerca è, di per sé, neutra: è l’essere umano, dotato dell’arma più potente che esista, ossia il libero arbitrio, che può decidere come applicare i risultati. In questo senso una questione morale della ricerca scientifica esiste, ma esiste in quanto la ricerca è allo stesso tempo neutra e oggetto di ricezione politica, morale e sociale da parte dell’essere umano, che la storia insegna essere fallibile. Per rendere più chiare le implicazioni del problema, basti fare un altro esempio, assai più oscuro. Nei campi di concentramento nazisti, come è noto, sono stati condotti esperimenti del tutto antiscientifici con lo scopo di individuare presunti livelli di purezza razziale, o di scoprire le ragioni, ad esempio, per cui nascono i gemelli omozigoti; celebri sono le ricerche della terribile personalità che fu Josef Mengele.
Tuttavia, è riconosciuto con un certo imbarazzo che ciò che rimase di quelle ricerche, vale a dire, tra le altre cose, una ricchissima collezione di cervelli umani, dalle proporzioni impensabili in precedenza, raccolta proprio grazie al disprezzo per la vita umana, ha costituito una fonte fondamentale per la ricerca neurologica che tanti benefici ha prodotto. È opportuno essere coscienti della provenienza delle nostre conoscenze: senza porsi questo problema, il rischio è di cadere in una disumanità che rimanda pericolosamente a un ipotetico, freddo e amorale “bene superiore”.

EffeEmme